Rosso e Tigre

Di Valerio Moschetti

Era il suo mantello rosso leggermente striato dall’aspetto simile al velluto che traeva in inganno dandogli un aspetto decisamente signorile quando lui, in realtà, era un vero gatto selvatico, della miglior specie.Si divertiva a strofinarsi contro le calze di nylon delle vecchine sedute sulla panchina perché quelle scintille che il suo pelo provocava sulla trama sintetica lo solleticavano, mentre qualche nonnetta allungava la mano per carezzarlo. Lui alzava la coda, quasi a segnalare che la schiena finiva li e che, prego, ricominciassero ad accarezzarlo dalla testa. Ma nonostante questo vezzo, non abitava nessuna casa e la sera rientrava nella sua dimora, un sottotetto di lamiera della capanna di Pietro, che ogni mattina gli faceva trovare una ciotola di crocchette. Lui spesso le tralasciava a ribadire il concetto che era il gatto di nessuno e preferiva cacciare due lucertole con le quali fare una colazione non certo abbondante ma tanto, tanto naturale. Di questo le lucertole non erano contente. Quella sera la brezza di mare non portava solo odore di salsedine, come sempre accadeva, ma profumi nuovi. E voci nuove, rumori che non conosceva. Fiutava l’aria con attenzione anche se l’impressione che dava era quella che schiacciasse un pisolino. Perché anche questo è dato di sapere, Rosso era un gatto sornione. Sentì odore di umani, forte ed insolito. Poi odore di selvatico, animali, tanti animali. Tutti aromi nuovi, esotici. Ma in mezzo a tutta quella babilonia di profumi una fragranza lo incuriosiva. Non riusciva a darle un’identità, un nome. Era forte, intensa. Quello si. Era aromatica, profonda ed in grado di stimolare tutti i suoi ricettori dell’olfatto. Era in realtà rapito ed un pò stordito da quel profumo a cui non sapeva dare un volto. Venne sopraffatto dalla curiosità. Si portò verso il grande piazzale sterrato dove era iniziato quel gran via vai di persone, camion, teloni e corde. Trovò sulla sua strada due sorci che trotterellando rientravano. Con loro vigeva un vecchio accordo di non belligeranza sancito due anni prima: lui li lasciava stare e garantiva di non cacciarli, loro non rosicchiavano nulla, ma proprio nulla, nella capanna di Pietro. E quell’accordo resisteva, superando inevitabili periodi difficili dovuti alle carestie dell’inverno. Rosso alle volte chiudeva un occhio e lasciava che Topo1 e Topo2 gli rubassero una o due crocchette. Sapeva bene cosa fosse la fame e che fatica comporti tenere in piedi una famiglia di topi, prolifici come sono. Fatto sta che Rosso li avvicinò chiedendo loro cosa stesse accadendo, cosa fosse tutte quella confusione. Topo1 e Topo2 parlando quasi in sincrono gli spiegarono in tono reverenziale (era pur sempre un gatto) ciò che avevano visto. Erano arrivati tanti animali, molti di questi assolutamente sconosciuti. Certo, cavalli e cani. Anche caprette. Ma certi strani asini molto molto grossi, con le orecchie larghe come lenzuola ed il naso lungo sino ai piedi. E poi certi cavalli dal manto a strisce che sembravano una squadra di calcio pronta a giocare. Rosso annuiva, ma quel profumo che tanto lo aveva attratto non aveva ancora un nome e non credeva che appartenesse a nessuno di quegli strani animali di cui i topi avevano parlato. Decise che avrebbe fatto da solo e saltando dal muretto di sassi sulla ringhiera dell’hotel fece strada verso il piazzale polveroso. Evitando le auto con balzi assolutamente felini (che gatto!) raggiunse in pochi minuti quel bailame di persone indaffarate, teloni distesi per terra e tante tante funi pronte ad essere messe in tensione. Sgattaiolò tra le gambe di tre uomini che concitatamente sospingevano alcuni cavalli in un recinto, diede un’occhiata a quell’enorme asino dal lungo naso e si trovò ad un tratto di fronte un cane che fastidiosamente abbaiava, legato miseramente ad una corta catena. Oh, come non sopportava quegli stupidi, irruenti ed inferiori animali a quattro zampe che dividevano il mondo con gli umani comportandosi come servi di bassa lega. In un altro momento si sarebbe fermato a leccarsi il pelo a pochi centimetri dalle sue zanne, con il sottile piacere di vederlo imbestialire sino allo sfinimento. Aveva incontrato tanti cani nella sua vita e raramente aveva dovuto battersi per salvare la pellaccia. Ma tutte le volte, proprio tutte, li aveva fatti andar fuori di testa, lasciandoli nella più profonda disperazione per non averlo agguantato. Ma oggi non si sarebbe femato, c’era qualcosa d’altro che lo attirava. Quel sottile profumo di esotico e selvatico allo stesso tempo. Gli ricordava certi pomeriggi di primavera, quando alla ricerca di qualche preda si accuattava nei cespugli di pitosforo e quel profumo inebriante gli confondeva i pensieri al punto che le piccole lucertole quasi erano deluse di non attirare la sua attenzione. Si, era quello il profumo, ma molto più dolce, più elegante. Vagava quindi in mezzo a quel grande via vai, seguendo l’olfatto ed il suo istinto, che mai lo aveva ingannato. Svoltando dietro ad un telone già issato, dietro ad un recinto dalle sbarre argentate, illuminata da uno splendido sole lei stava elegantemente adagiata su un telo di pregiata juta, al sole. Il suo manto dorato brillava con i raggi del mattino ed al suo fianco una enorme ciotola di acqua fresca di fonte era il suo conforto per la calura che si stava avvicinando. Si, ecco da dove proveniva quel profumo, quel richiamo al quale Rosso non riusciva a dare un nome: uno splendido esemplare di Tigre della Polinesia, unico al mondo per bellezza e chiarore del manto, elegante e sontuosa come solo certi felini di classe sanno essere. Non a caso il suo recinto era una reggia alla quale si poteva accedere solo pagando il biglietto, perché una cosa così non si era mai vista. Il suo manto biondo come i campi di fieno in estate correva sul suo corpo sotto il quale muscoli forti ma delicati le conferivano un aspetto sano e sensuale. Il contorno roseo del suo naso contrastava elegantemente con quella linea sottile e nera che tracciava i confini dei suoi occhi. Ed i suoi occhi, si, i suoi occhi erano stupefacenti. Azzurri come il colore del mare, profondi, nei quali poteva affogare chiunque. Quando voltava il capo e distrattamente lo sguardo cadeva su qualche altro animale del circo, questi abbassava il capo in segno di rispetto e di ammirazione. Rosso rimase incantato, non poteva neanche immaginare che al mondo potesse esistere una meraviglia come quella. Nella sua mente veloce, abituata a decisioni repentine e geniali non transitava nessuna idea, solo fantasie, immagini irreali dove lui vestito da Gran Felino di Corte invitava quella creatura ad un ballo, al compleanno del Re Leone, laggiù nella giungla. In pochi istanti da gatto sveglio e baldanzoso si era trasformato in un micio rincitrullito dalle fusa facili. Cominciò a destreggiarsi in alcune evoluzioni con la coda. Sapeva del suo fascino. Ma un rapido movimento della coda di lei, a scacciare alcuni fastidiosi insetti, gli fecero capire che non c’era paragone. Pensò allora di salire sulla ringhiera di recinzione dando dimostrazione della sua grande agilità e senso dell’equilibrio. E come spesso accadde in un passaggio scivolò miseramente finendo a pochi centimetri da una tinozza di acqua sporca. E tutto questo senza che lei, la splendida Tigre, lo avesse degnato di un benché minimo sguardo. Allora ebbe un colpo di genio, uno di quelli che solo a lui venivano e per il quale Rosy, la gattina della panettiera sarebbe impazzita mettendosi subito a disposizione per una cucciolata primaverile. Ma Rosso aveva ben altre mire. Con quattro balzi salì sul muretto di recinzione del paese, salì gli scalini di gran carriera e con una manovra degna di un acrobata cadde sul davanzale del ristorante. La cuoca era girata di spalle e lui con la maestria di Arsenio Lupin scippò dal piatto di portata un pezzo di coniglio alla ligure, il più grosso che riuscì ad afferrare. Poi velocemente ripercorse la strada al contrario, trattenendosi dal desiderio poco controllabile di fermarsi a divorare quel boccone prelibato. Saltò, scivolò, quattro balzi a destra, quattro a sinistra. In pochi istanti raggiunse il recinto di quella che ormai lui riconosceva come La Sua Principessa. Si arrestò proprio alla base del recinto, posando su di una foglia di ippocastano il boccone prelibato. Con la sua ruvida lingua si diede una rassettata al pelo e poi, afferrando per come poteva l’insolito vassoio, iniziò ad avventurarsi all’interno del recinto. Non aveva idea di quale avrebbe potuto essere la reazione della fiera. Con una sola zampata avrebbe potuto metter fine ai suoi giorni spiaccicandolo contro il telone del circo. Oppure avrebbe potuto pensare che lui ed il coniglio fossero un unico boccone e che il destino glielo aveva riservato per colazione. Ma era un rischio che doveva correre. Non aveva mai visto un felino di tanto fascino e forse, pensò, potrei anche morire pur di starle vicino. Chissà, forse sono solo un gatto selvatico che si è montato la testa. Oramai comunque era li e in quattro passi si trovò di fronte alla Tigre. Posò delicatamente il boccone a terra, facendo cenno di saluto con il capo. Poi compiendo una rotazione simile ad un otto, ondeggiando sinuosamente la coda, si mostrò in tutto il suo splendore agli occhi di lei. Infine in segno di devozione ed ammirazione piegò le zampe anteriori strofinado il muso e facendo le fusa. La Tigre socchiuse gli occhi, guardandolo con quel suo sguardo incantevole e Rosso per un attimo si sentì svenire. Poi delicatamente inspirò con le narici per catturare il profumo di quel piccolo assaggio. Allungò il capo e con la lingua raccolse il pezzetto di coniglio masticandolo delicatamente. I suoi occhi sorridevano a Rosso ed a lui non sembrava vero. Non aveva mai provato un piacere così grande. Lei era entusiasta di quel dono, i suoi occhi non nascondevano alcun segreto. Aveva fatto colpo su di lei. E lei si avvicinò con il muso al suo, per dargli un bacio di riconoscenza. Rosso si rotolò su se stesso più volte, fece le fusa speciali, quelle riservate a Pietro quando gli portava gli avanzi dei ravioli la domenica. Poi osò tanto e si avvicinò a lei, strofinandosi sul suo manto dorato. Provò emozioni che solo chi conosce la passione può immaginare e la sua felicità raggiunse il massimo. Restò il pomeriggio con lei a chiacchierare, a scambiarsi dolci effusioni anche se lui teneva sempre un occhio attento a quelle possenti zampe che lo avrebbero potuto tramutare il un groviglio di peli in un istante. Ma lei sapeva cos’era l’amore ed era la più tenera micina che lui avesse mai conosciuto. Venne sera e Tigre doveva rientrare. Rosso tristemente la guardò allontanarsi mentre lei con la zampa lo salutava, sorridendogli splendidamente. La vedeva tornare nel suo castello incantato ma l’avrebbe voluta con se, per farle conoscere il suo mondo di fasce e mimosa, lucertole e topini. Eh, si, forse per lei avrebbe anche interrotto il patto con Topo1 e Topo2, pur di offrirle un succulento aperitivo. Ma come lei scomparve dietro il telone non si fece soppraffare dalla malinconia, sapeva benissimo cosa fare. Ogni mattina le avrebbe fatto trovare un assaggio della sua fantastica terra, patria di una cucina sopraffina. Ebbene si, si era montato la testa. Rosso voleva conquistare il cuore di quella splendida Tigre. E con quattro balzi, due a destra e due a sinistra, si allontanò felice come non era mai stato.

Per gentile concessione di Valerio Moschetti dal suo bellissimo Blog

www.valmos.com

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